2015-02-09

Pareidolia

recensione di pareidolia di marina rei

Marina Rei - (2014)


Non sapevo se iniziare questa recensione parlando della storia di Marina Rei oppure partendo dalla definizione di pareidolia. Allora ho deciso di mettere insieme le due cose, sperando di non fare troppa confusione...

Marina Rei la conosciamo tutti. Sì, quasi esclusivamente per una sola canzone ("Primavera", 1997), però tutto sommato è un personaggio abbastanza noto della musica tricolore.
Non tutti, però, sanno che la cantautrice romana ha iniziato come vocalist dance, con lo pseudonimo di Jamie Dee. Se andate su youtube e cercate qualcosa di questa artista, vi compariranno video dei primi anni '90 con musiche tipicamente- e squisitamente! Almeno per un ex dj come il sottoscritto!- rimbambite e una voce calda e già perfettamente bilanciata.
Ecco, pensare alla Marina Rei di oggi dopo aver visto questi trascorsi equivale ad una pareidolia!

Cos'è?
Si tratta di quel fenomeno illusorio per il quale noi tendiamo a dare un aspetto e una forma definita e riconoscibile a qualcosa del tutto casuale. Tanto per fare un esempio: quante volte vi sarà capitato di dire che una nuvola sembrasse il viso di qualcuno o un oggetto particolare?
Ecco, vi siete appena fatti una pareidolia in piena regola!
Ma, le visioni di Marina Rei di cosa si compongono?
Di storie, ovviamente!
Come nella miglior tradizione cantautorale italiana, questo nono album di Marina Restuccia (in arte Rei) parla di vita, di amore, di passioni belle e brutte, di arte e di persone. Lo fa traendo spunto da molti artisti con i quali la cantante capitolina ha collaborato nel tempo: Max Gazzè ("Sole", "Vorrei essere"), Riccardo Sinigallia ("Ho visto una stella cadere"), Carmen Consoli ("Lasciarsi andare"), e molti altri.
Il problema è che lo fa quasi sempre piegando la sua personalità a quella dei brani, fino a diventare una specie di succursale degli originali e perdersi in un approccio musicale che, lungi dall'essere improprio o puramente derivativo, comunque fatica a mostrarsi per quello che è: sano cantautorato made in Italy!
Chiaramente si tratta della mia opinione; come potete sentire nell'intervista poco sotto, la cantante capitolina è certa del contrario. Punti di vista, immagino...
Tornando al disco... tralasciamo la title track, obbrobrio rap del quale avremmo voluto volentieri fare a meno, soprattutto per il pugno nell'occhio che rappresenta la sua presenza in questa track list!
Tutto il resto del campionario della cantante romana fa semplicemente fatica ad esistere se non tirando in ballo modi di fare musica di altri, ossia sistemi compositivi peculiari che tra loro c'entrano ben poco.
Un vero peccato!

Perchè il songwriting non sembra malvagio e sia i testi che l'esibizione vocale di Marina Rei meriterebbero miglior sorte. Anche grazie all'ottima produzione di Giulio Favero, capace di dare muscolarità al suono quando lo necessita e ritirarsi in un comodo e languido angolino folk nei momenti più intimi (la stupenda cover "Annarella" dei CCCP).
Strano che il bassista de Il Teatro degli Orrori non si sia accorto di quanto sia perniciosa la presenza della title track in questo disco, ossia della schizofrenia che contraddistingue un po' tutto il campionario!
Un limite che non dovrebbe appartenere né a lui e né a Marina Rei, ma che in definitiva affossa un album con troppo poca personalità per illudersi di durare nel tempo.
Voto:5,5

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