2025-03-28

Joose

 


Joose – (2015)


Joose significa Jack Stauber. Chi è? Vi chiederete…

Un pazzo! Risposta tanto ovvia quanto mai come in questo caso calzante.

La domanda successiva è: perché un pazzo? Perchè visionario, innanzi tutto. Ma anche perché privo di limiti precostituiti, libero da vincoli di sorta, solo e solitario nel suo voler imprimere all’universo- o almeno, il suo universo- un’impronta tangibile, viva e personale. Lo dimostra “Joose”, primo e unico che io sappia album licenziato dalla band eponima. Che poi altro non è se non Jack Stauber stesso e qualche comparsa a supporto. Non sto sminuendo il lavoro dei comprimari, ci mancherebbe. Solo sembra piuttosto evidente che il disco sia tutta farina del sacco del cantautore statunitense, tutto qua. Comunque sia…

Da cosa si può evincere tutto questo? Beh, ad esempio dalla varietà stilistica riscontrabile nella track list. Spesso questa attitudine è sintomo di una certa mancanza di direzione, di un’ambivalenza concettuale che non porta nulla di buono all’arte. Nel caso di Jack Stauber invece ha tutto il sapore di libertà, di un artista che sta creando e non si pone alcun limite di genere, durata o stile. Un artista che crea. E basta.

Da qua nascono scorci di pop-rock frenetico e dispotico come nel caso dell’iniziale “Hey”, piuttosto che ballate primaverili come “Growth” oppure salti carpiati negli anni ‘80 e nella loro follia post-moderna con “Kickback”.

Tutto in “Joose” suona fresco, vivace, anche se a ben vedere, almeno nella parte del full length fin qua citata non è che ci siano particolari slanci creativi o trovate anche solo leggermente fuori dagli schemi. Diciamo che piuttosto quello che ama fare il cantautore americano è mettere insieme elementi per vedere se l’incastro funziona, non accontentandosi mai della pura sufficienza, carina a sentirsi e facile da piazzare al mercato della discografia, ma andando a fondo al concetto prefissato senza lasciare nulla di intentato pur di portare a compimento un’idea. Che magari non sempre funziona ma almeno si è tentato.

E’ da questo stato delle cose che nascono improvvise accelerazioni e stasi immense, tempi senza continuità e spianate quasi lacustri. Ma anche ballad dal gusto quasi brit pop (“Corndog”) e destrutturanti e perverse canzoni al limite del grunge (“Galaxy Queen”) ma con forti tendenze trasformiste.

Quello che a tutti gli effetti colpisce di “Joose” è proprio questa estrema sensazione di menefreghismo, di assoluta emancipazione dalla necessità espressiva. Sia chiaro: non ho alcun dubbio sul fatto che Jack Stauber abbia studiato con cura le sue composizioni e pensato bene quanto e come dosare ogni singola componente: lo dimostrano “Pope” e quella strana creatura ska che va sotto il titolo di “The Big One”, due facce della stessa medaglia. Una medaglia che da un parte porta la testa, l’idea di un musicista che sa di poter fare quello che vuole senza colpo ferire, dall’altra la croce di un lavoro che per scelta e destino è e resterà un unicum nella storia.

Stiamo parlando di un genio? No, secondo me no.

Semplicemente Jack Stauber ha pensato che la cosa migliore che potesse fare era portare su disco il suo immaginario multisfaccettato, fatto di rock, funk, ska, hard rock alternativo, psichedelia- il binomio conclusivo è da brividi!- e un sacco di altre cose. Mettendo nel suo campionario tanto divertimento, ampie dosi di ruvidità- su tutte la graffiante “Drink and Drive”- elementi diversificati più dal loro utilizzo che dalla loro natura e un sacco di stimoli tra loro alternativi ma non necessariamente incoerenti. E’ così che “Joose” vive la sua breve ma intensa e definitiva esistenza. Ed è così che “Joose” piace.

Voto:7

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