2025-04-18

Castlebeat

 


Castlebeat – (2016)


Ci sono album belli. Poi ci sono album brutti. E poi ci sono album che non si possono definire belli ma hanno un qualcosa che potenzialmente potrebbe valere da ambizione al titolo estetico per eccellenza. L’album di debutto di Josh Hwang appartiene a quest’ultima categoria.

Ok, ok, prima diamo a Cesare quel che è di Cesare… visto che il ragazzo ci tiene tanto da scriverlo praticamente ovunque: registrare e produrre questo album è costato 0$. O meglio, giusto il tempo, la fantasia e la buona voglia di farlo, tutto qua. Non che questo abbia un particolare significato, dimostra solo che se si vuole fare qualcosa non servono grandi mezzi ma solo parecchia cazzimma. Fine della digressione. Passiamo al disco.

Tendenze shoegaze: l’opener “Dreamgaze” lo dichiara tanto nel titolo quanto nel carattere soffuso e sognante della sua estetica. Solo che nel caso di Castlebeat, shoegaze non significa necessariamente rock, anzi volendo tagliare i generi con l’accetta- cosa mica del tutto opportuna ma facciamo finta sia legale- potremmo dire che la musicalità del cantautore californiano penda decisamente verso il pop.

Strutture farraginose: le idee che si susseguono lungo la track list mostrano una tendenza piuttosto sicura nella scrittura ma i brani che ne conseguono sembrano spesso troppo farraginosi per stare insieme, quasi che i pensieri del cantautore californiano siano stai sparpagliati e poi raccolti alla rinfusa, un po’ come viene viene. Si prenda ad esempio “Falling Forward” e quei loop strumentali presenti un po’ a tutti i livelli che sembrano troppo lunghi, sfilacciati, a lungo andare addirittura fastidiosi. Forse anche il fatto che i cantati latitino per molta parte del brano ha un suo perché in questa sensazione di disagio, però probabilmente è l’eccessiva fumosità disarticolata delle strutture il principale limite di “Castlebeat”.

Emozioni altalenanti: Josh Hwang ha la capacità di prendere l’ascoltatore per l’orecchio e costringerlo ad accomodarsi sulle coccolose e nebulizzate costruzioni sonore che formano la sua idea musicale. Quasi sempre questo andazzo funziona a meraviglia, addirittura lasciando perplesso l’ascolto laddove questo adagiarsi sulla bambagia melodica avvenga quasi contro la propria volontà. Ci sono momenti del disco, però, in cui questa sensazione tutto sommato gradevole si trasforma quasi in una molestia emotiva. Ad esempio in “Goon Pop”, brano scanzonato e provocatoriamente antico in cui questa tendenza volatile a livello di produzione sembra decisamente una forzatura tendente a togliere peso specifico ad una canzone che ne avrebbe parecchio bisogno.

Distorsioni emotive: dai che ti dai, la track list riesce comunque a conquistarsi un suo piccolo angolo nel mondo interiore dell’emotività. Sì, forse in modo troppo timido e non sempre con la dovuta lucidità, però in particolar modo nella seconda metà della track list “Castlebeat” ha la capacità di diventare più contenitore che contenuto e questo salva in qualche modo le musiche da una difficilmente sopportabile dispersione.

Conclusioni: l’esordio sulla lunga distanza di Josh Hwang è un lavoro che ambisce ad essere bello ma proprio non ce la fa, un album che nasconde un potenziale notevole- l’ipnosi di “Phases”, nella sua banalità, può essere indicativa- ma che non riesce ad esprimerlo. Non del tutto, per lo meno. E non è neanche semplice capire se questo avvenga perché il suo creatore non ha ancora messo a fuoco gli strumenti necessari per portare a compimento l’operazione oppure se si tratti di effettivi fraintendimenti artistici. L’unica cosa certa, per come stanno le cose, è che “Castlebeat” è un frutto un po’ acerbo, magari in qualche modo buono anche così, ma fortemente alla ricerca di tempo e modo per maturare con calma. Ecco, visto l’andazzo, magari non troppa calma…

Voto:6

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