2025-04-22

Trick

 


Jamie T – (2016)


I tempi dell’introspezione e della riflessione utile a togliersi da dosso la patina di predestinato sembrano essere passati. “Carry on the Grudge” in qualche modo ha svolto la sua missione, permettendo a Jamie Alexander Treays di concentrarsi su un progetto che sappia cogliere la lezione del disco precedente ma anche riprendere quel piglio irriverente, un po’ giocoso e un po’ maniacale, apprezzato nei primi due lavori sulla lunga distanza.

Che il cantautore inglese sia tremendamente in forma lo si capisce già dall’opener “Tinfoil Boy”, una specie di via di mezzo tra Beck e Damon Albran che non si fa scappare l’occasione di attirare a sé l’attenzione prima di sfoggiare i contenuti più veri e personali firmati Jamie T. Ossia il drum n’bass miscelato rap, travestito di cibernetica ma dall’anima rock che va sotto il titolo di “Drone Strike”.

Neanche il tempo di prendere familiarità con questa aggressività in qualche modo elegante che di colpo tutto cambia: “Power Over Men” vale più o meno come un consommè in salsa Arctic Monkeys prima di riprendere con le pietanze più succulente.

Attenzione, succulente non significa necessariamente gustose. O meglio, non di quel gusto un po’ pazzo e un po’ originale che ci si potrebbe aspettare da Jamie T. Questo perché “Tescoland” ha profondissimi profumi di Clash, “Dragon Bones” torna a certi ammiccamenti beckiani, “Joan of Arc” recupera gli istinti più indie del musicista di Wimbledon e “Robin Hood” strizza nuovamente l’occhio al ‘77 senza vergognarsi di tirare in ballo una volta in più Joe Strummer.

A questo punto si dirà: beh, come minimo un campionario così derivativo non può di certo ambire a qualcosa che vada oltre la sufficienza. C’è del vero in questo. La motivazione però è un’altra. Perchè, sì, in molte parti del suo quarto album di inediti Jamie T si dà allo svago restaurativo di quelli che sono da sempre i suoi punti di riferimento, pur mettendoci quasi sempre un po’ del suo, come ad esempio in “Dragon Bones” dove un’elettronica birichina ma anche travolgente riesce a portare comunque l’ascolto ad un livello che non sia quello del puro revival. A questo vanno aggiunti un paio di momenti veramente interessanti, quasi sovversivi rispetto al resto della track list e del contesto in cui sono immersi. Parlo di “Police Tapes” e “Solomon Eagle”, con ogni probabilità gli episodi del disco che tracciano un solco profondo tra il Jamie T che fu e quello che sarà. E potremmo metterci dentro anche l’oscura conclusione sulle note tetre ed ipnotiche di “Self Esteem”, magari un po’ complessa da cogliere nella sua torbida bellezza perché posta in fondo ad un campionario piuttosto impegnativo.

Ma allora perché “Trick” non riesce ad andare oltre una solida sufficienza? Innanzi tutto perché sembra un album un po’ disordinato, quasi come se Jamie T avesse un po’ di cose nuove, un po’ di cose vecchie e un po’ di cose mezze e abbia deciso di buttarle su disco un po’ alla sperindio. Ma in realtà probabilmente non è neanche questo il motivo principale.

Il punto è che “Trick” sembra la liberazione dopo la penitenza, quel momento di vita spericolata che si può apprezzare solo dopo un percorso piuttosto lungo di espiazione. Di solito si tratta di una parentesi piuttosto confusa, magari non del tutto spiacevole, ma quasi sempre poco lucida. Ecco, forse è questo che colpisce del quarto album di inediti firmato dal cantautore britannico: la mancanza di lucidità. Non sempre, solo a tratti, ma quanto basta per chiedersi se questo “Trick” sia veramente un lavoro riuscito.

Voto:6

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