2012-11-10

Power Tool Stigmata

recensione di power tool stigmata dei godhead

Godhead - (1998)



La parte "nu"- intesa come porzione elettronica del genere lanciato dai Korn- si sente eccome, quella metal latita!
Il progetto Godhead nasce intorno alle figure dei fratelli Miller (Jason e Mike), attorcigliando il gusto dark anni '80 con le nuove attrazioni tecnologiche, formando così un muro di drum machine e sonorità alla Depeche Mode che in qualche modo riesce a rapire l'ascolto, ma per lo più recuperando stili e metodi abbastanza sorpassati.
Questo vale in primis per la cara vecchia "Eleanor Rigby", scippata ai Beatles e resa tetra ed urbana, quasi la storia della protagonista si fosse spostata nella realtà di "Blade Runner". Ma a questo punto ci si arriva solo dopo aver superato la rincorsa a pieni polmoni di "Gimp", debitrice tanto ai Chemical Brothers quanto al David Bowie degli anni berlinesi, e le tetre atmosfere di "Penetrate", punteggiate da richiami agli Apollo 440.
Tutto l'album è ricamato su cose già sentite, su stilettate che ricordano vecchie mode e ripartenze artificiali, dando all'ascolto la netta impressione di essere capitati in una specie di gran calderone musicale, nel quale tutto ha un suo riscontro ma nulla è come sembra. Così, tralasciando le insignificanti "Alone", "Bleed" e "Craving" si può facilmente cascare nella trappola rarefatta e nebbiosa di "Fucked Up", oppure nelle anguste segrete di "Laura's Theme", prima di rimanere intrappolati nell'ansia di "Lies"- ottimo punto di contatto con i Coal Chamber- e perdersi nella burrosa "Memorial" e nella tetra rappresentazione cibernetica di "Headache Symphony".
Il percorso messo in piedi dai fratelli Miller- coadiuvati da Ullrich "Method" Hepperlin, autore, bassista e tastierista del gruppo, e da James O'Connor, fautore delle ritmiche- non ha una direzione precisa ma percorre in pieno tutte le strade che dalla musica gotica portano fino all'elettronica spicciola, forse alla ricerca del loro vero habitat naturale.
La chiusura del disco, sballottata tra la follia disgregante di "Suffer", il cyber-ambient di "Pride" e la viscosità di "Afterthoughts", non riesce a risollevare le sorti di un lavoro troppo ambivalente e schizofrenico per essere apprezzabile in pieno.
Qualcosa di interessante in questo quarto lavoro del gruppo di Washington c'è, impossibile negarlo. Ma per trovarlo ci vuole un'attenzione eccessiva e una non comune abilità nello schivare le onnivore cascate d'elettronica che divorano le musiche. Un po' più di ambizioni e una ricerca maggiormente pacata per i suoni potrebbero portare i Godhead in paradiso. Virtuale, ovviamente! Voto:5,5

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