2025-03-22

Katabasis

 


Hellucination – Katabasis (2015)


La catabasi è un percorso. Che si fa da vivi in mezzo ai morti. E’ da questo concetto che parte il debutto sulla lunga distanza dei romani Hellucination, da un tragitto che faccia discendere l’esistenza fino a portarla a contatto con l’inerzia del mondo di Ade.

Non è dato sapere se a questo itinerario segua poi il suo opposto geometrico, cioè l’anabasi, ma a giudicare da quanta cazzimma viene messa nei costrutti musicali dal trio capitolino potremmo anche tranquillamente concludere che nell’Averno gli Hellucination non si trovino poi così male.

Da cosa è fatto questo percorso proposto dalla band romana? Grosso modo da death metal, declinato a volte più in chiave melodica, altre in maniera prettamente tecnica, altre ancora al limite del deathcore, ma pur sempre con uno sguardo ben piantato sulla componente pratica dell’approccio strumentale. C’è poco spazio per fronzoli, se non nell’introduzione, e per sotterfugi: qui si bada al sodo e tutto il resto non conta.

Prove ce ne sono a bizzeffe: “No Sun”, tanto per andare con ordine seguendo la track list proposta dai nostri. Un schiaffo diretto in faccia all’ascoltatore solo vagamente anestetizzato da una partenza interlocutoria abbastanza scenografica. Seguono altri momenti decisamente incisivi e corposi come “Shepherd of Vileness” e “Rot in Hell”, inframezzati da pochi attimi di sano respiro acustico e sporadiche dipendenze tematiche da tecnicismi non facilmente inquadrabili nel contesto.

La componente predominante e maggiormente attraente delle musiche è senza dubbio data dal lavoro alle sei corde, dinamico e aggressivo, improntato a voler superare le soluzioni canoniche per andare alla ricerca di alternative capaci di dare maggior corposità al tutto.

Il problema è che tutto il resto funziona un po’ sì e un po’ no. Nel senso che, per quanto tecnicamente ineccepibile, il lavoro alle pelli di Andrea Scimò sembra troppo spesso slegato rispetto al resto della composizione sonora, quasi il suo tragitto sia parallelo al resto della band e non congruente. Altro dettaglio migliorabile: la chiusura dei brani. Lasciar morire le canzoni come nel caso di “Shepherd of Vileness”, con uno sfumato non esattamente esaltante, è un po’ come servire una pietanza buona ma buttata sul piatto un po’ alla carlona.

Il vero tasto dolente, però, a mio avviso, è dato dai vocals. Troppo piatti, troppo uguali a sé stessi indipendentemente dal contesto, troppo omogenei per poter ambire a dare il giusto pathos alle composizioni sonore.

Peccati di gioventù si potrebbe dire, visto che stiamo pur sempre parlando di un debutto sulla lunga distanza. Però peccati che disturbano abbastanza la sensibilità da non permettere all’ascoltatore di seguire con la dovuta presenza emotiva l’itinerario sonoro proposto dal gruppo romano. Detto altrimenti, il composto grezzo sembra essere di ottima qualità: bisogna affinare la lavorazione per poter tirare fuori qualcosa veramente di valore. Detta così sembra facile ma in realtà serve metterci parecchio impegno e anche un po’ di coraggio. D’altra parte niente che non sia nelle corde di un gruppo che è voluto partire da una catabasi!

Voto:5

Nessun commento:

Posta un commento