2025-03-16

Sugar

 


Robin Schulz – (2015)


Robin Schulz… tedesco, bla bla bla… ne abbiamo parlato poco tempo fa e non sto a rifare tutta la manfrina da capo.

“Sugar”: gran pezzo! Il singolo intendo, non l’album. Perchè non fa assolutamente nulla di nuovo, non inventa alcunché ma sfido chiunque a togliersi dalla testa il motivetto portante del brano dopo averlo ascoltato. Non c’è verso! E’ una specie di dardo velenoso che si insinua nella mente e non se ne va neanche sotto minaccia!

Dopo di che c’è “Sugar”, l’album, non il singolo. E questa è un’altra storia. Che peraltro mica comincia con lo zucchero. Cioè in realtà sì, perché “Headlights” e pura dolcezza estetica messa appositamente su un tappeto levigato di violini ed elettronica, quasi una primula su un tappeto di soffice prato all’inglese. Non se la prenda Robin Schulz: di prati meravigliosi ce ne sono anche in Germania, è solo un modo di dire.

E poi c’è “Sugar”, il singolo non l’album, ed è evidentemente il momento di arrendersi. Metti il tiro del brano, metti il motivetto di base, metti i cantati di Francesco Yates- ma chi è? Cos’altro ha fatto nella vita?- metti quello che vuoi, la title track stende al primo ascolto. E continua a stendere fino all’ennesimo ascolto, ossia solo quando la nausea da sbornia incontrollata prende il sopravvento.

Poi cambia la traccia ma non cambia il contesto. Sempre chitarrine birichine e leggiadre a guidare il tema, sempre una voce elegante- quella di Akon stavolta- a svolazzare su ritmiche rallentate e rilassanti.

Ok, l’idea di Robin Schulz è chiara: abbassare i battiti e rendere tutto più chill e in qualche modo raffinato. Funziona? Per un po’ sì. Poco da dire ma effettivamente un approccio così oppioide al clima mentale ha il suo effetto, che lo si voglia o meno. Però siamo solo a traccia 3; ce ne sono altre 12 da affrontare. Qualcosa dovrà pur cambiare prima o poi se no si rischia l’overdose da carezze.

In realtà no. Cioè nì, ma quello che cambia sta più nelle nuances che nell’impasto. Già “Yellow” fa capire che il tono generale del disco sarà grosso modo questo, con quelle delicatezze tematiche che ricordano vagamente i Faithless del periodo di lancio di Dido, e un modus operandi che viaggia più sulle sfumature che sull’impatto diretto. Idem per quanto riguarda “Show Me Love”- titolo pericolosissimo quando si parla di discoteche!- che altro non è se non l’ideale secondo tempo di “Sugar”, e “Love Me Loud” con solo la vocalità gentile di Aleesia a modificare un po’ l’andazzo garbato delle musiche e delle tastiere estive, molto soleggiate, a prendere il posto della sei corde.

E poi ci sono “Pride”, “Find Me”- altro titolo piuttosto azzardato- e “Titanic”. Che almeno a livello di tiro puro e semplice regala un po’ di testosterone alle dinamiche musicali. E poi “This Is Your Life”, e quel sassofono che gioca a nascondino e che poteva essere sfruttato meglio, e tutto il resto della track list. Fatto di cover più o meno riuscite e poco altro.

E poi l’album finisce. E viene spontaneo chiedersi: ma Robin Schulz ci è o ci fa? Perchè “Sugar”, l’album, non il singolo, suona in maniera meravigliosa: a chiudere gli occhi mentre scorrono i brani si possono vedere chiaramente spiagge arse e mare limpido. C’è però sempre, costante l’impressione che il dj tedesco ci stia fregando. Allora ci si pone il dubbio che si tratti dei campionamenti. E invece non sono quelli. Che ci sono, ovviamente: stiamo parlando pur sempre di un dj! Però, sempre che siano riconoscibili, si tratta di prestiti tutto sommato di nicchia, mica cose mirabolanti.

E allora cos’è? Di cosa si tratta? Sinceramente non lo so. E tutto sommato non ho più voglia di spremermi le meningi alla ricerca del dettaglio che non torna. Ha vinto lui. Ha vinto Robin Schulz. Anche se allo zucchero di solito preferisco il pepe per una volta largo spazio alla glicemia e chi s’è visto s’è visto.

Voto:7

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