
“La Fabbrica dell’Assoluto” da una parte, “1984” dall’altra. La fantascienza paranoica della tradizione letteraria balcanica e il polemista satirico più intelligente di sempre: siamo alla fusione della distopia più classica e concettuale, quasi una crasi delle paure più abnormi che l’uomo post industriale riesca a concepire.
In mezzo ci sono loro: La Fabbrica dell’Assoluto.
Romani, tradizionalisti, fautori di un prog rock d’altri tempi, anziano tanto nelle movenze quanto negli intenti. E bello! Cioè bello come può essere uno scrigno antico, un mobile d’epoca, un vecchio quadro.
Ora, il pericolo, in un’operazione di questo calibro è ovvio ed evidente: si chiama revival. Volendo proporre un metodo assodato in tempi non sospetti con un buon mezzo secolo di ritardo, il progetto della band capitolina può portare inesorabilmente verso il semplice recupero di uno stile nobile quanto si vuole ma dalle fondamenta fragili e dal portamento asincrono rispetto al qui ed ora.
Ecco, a “1984: L’ultimo uomo d’Europa” questo non succede. O meglio, succede solo in brevi e sporadiche fasi del disco, quasi si tratti una trappola impossibile da evitare, un pericolo da tenere a bada, cosa peraltro fatta con notevole perizia dalla band capitolina.
Nelle corde del debutto sulla lunga distanza del gruppo romano ci sono la necessità narrativa che l’argomento impone, la furia espressiva di un rock progressivo impetuoso, a tratti violento ma anche elegante (“4 aprile 1984”), scorbutico quando serve, passionale praticamente sempre, ma soprattutto una declinazione incredibilmente moderna di un genere troppo complesso per venir assorbito senza il necessario impegno da parte dell’ascoltatore.
I richiami al romanzo di George Orwell sono tanto ovvi quanto ben amalgamati nelle sequenze sonore, l’ombra di Karel Capek si sente solo nei profumi di ambivalenza che sgorgano in brani come “L’occhio del teleschermo” e “Lo sguardo nel quadro”, comunque il minimo sindacale per tenere vivo il contatto tra il concept album e il monicker scelto dal quintetto romano.
Inutile raccontare passo passo il disco: la storia penso sia conosciuta a tutti. O meglio, se non avete mai letto “1984”… boh, secondo me vi manca un pezzo. Non so di cosa ma di sicuro un pezzo vi manca.
Il modo in cui Claudio Cassio e compagni la rendono album, invece è il vero vulnus di un lavoro travolgente, immediato ma anche riflessivo alla bisogna, capace di convogliare tutta la forza espressiva del romanzo in soluzioni strumentali contemporaneamente rispettose della tradizione prog e volte a rimodernare un modus operandi troppo datato per essere anche al contempo solido.
Un lavoro davvero ben fatto, verrebbe da dire eccezionale se solo non fosse che qualche richiamo di troppo alla nobiltà progressiva- gli ELP in “La ballata dei Prolet”- ne riduce l’impatto frontale, portando il pensiero ad un procedere a ritroso nel tempo in qualche modo distraente.
Dettagli da nerd musicali, sia chiaro, mica nei capaci di usurpare la bellezza di un disco d’altri tempi ma forse mai come in questo momento attuale.
Volendo forzare un pensiero distopico a mia volta, oserei dire che George Orwell sarebbe orgoglioso di aver ispirato un album come “1984: L’ultimo uomo d’Europa”. Sarebbe molto bello poterglielo chiedere…
Voto:7,5
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