2025-04-27

Ascolti Perduti #35

 


Partiamo con la trentacinquesima puntata di Ascolti perduti da un album piuttosto famoso: “Mon Coeur Avait Raison” (2015;Voto:6) di Maitre Gims.

Non ve lo ricordate? Ma sì, è quello con il traino “Est-ce Que Tu M’aimes?”, presente su tutti i media a più riprese a cavallo tra il 2015 e il 2016.

La domanda più naturale a questo punto dovrebbe essere: perché ascolti perduti? La risposta è tanto semplice quanto banale: piuttosto complicato discutere di un disco quando non si conosce la lingua esplicitata nei cantati. In particolar modo per quanto riguarda un lavoro che dona alla componente testuale un ruolo da protagonista.

Ma allora come mai c’è il voto in calce? Perchè l’album è tutto sommato bellino dal punto di vista estetico, dotato com’è di un’eleganza che, per quanto in certo modo derivativa e forse un po’ eccessiva in durata, difficilmente si può definire meno che gradevole. A maggior ragione se addobbata da cantati seducenti ed incisivi come quelli del musicista congolese.

Diciamo che se il tutto fosse stato concepito come un album unico e non doppio, potando una serie di brani non necessari all’evolversi dinamico della track list, forse ora staremmo parlando di qualcosa di più che un lavoro sufficiente. Però, preso a piccole dosi “Mon Coeur Avait Raison” regala emozioni di un certo spessore e forse è questa l’unica cosa che conta davvero.


Di emozioni ce ne sono invece davvero pochine in “The Hierarch” (2015;Voto:5) dei francesi Hegemon.

Non me ne voglia la band transalpina ma il loro quarto lavoro sulla lunga distanza è un tantino noiosetto. Per quanto si possa definire noioso un album black metal, s’intende. L’unica componente davvero convincente è la produzione, capace di mettere in risalto con notevole accortezza ogni componente del suono. Forse anche troppo, viste certe scivolate patinate che in ambito estremo rischiano di essere più un fattore di disturbo che un valore aggiunto.

Poi, certo, c’è della tecnica, ci sono brutalità, chaos e tutto quello che volete. Solo che, una volta finito, “The Hierarch” porta dietro di sé un’unica impressione: il solito album black metal. Niente più, niente meno.


Di “solito” oppure scontato non ha invece assolutamente niente “Sanduka” (2016;Voto:ng) di Nihil Piraye, multicentrico e sfaccettato cantautore turco.

A dire il vero potrebbe anche trattarsi di una band: sui canali che uso per informarmi non c’è traccia di alcunché a questo nome. “Sanduka” sembra un po’ il manifesto di questo progetto turco: contiene parecchi stimoli, a loro volta dispersi in una quantità piuttosto fornita di generi musicali, prospettive insolite e un sound tutto sommato curioso, probabile frutto delle miscele di rock e pop in varie declinazioni e tradizione turca. Diciamo un album un po’ per curiosi e molto per ricercatori di alternative globali. Poi, certo, a sapere il turco tutto sarebbe più facile ma… pazienza...


Decisamente adatto ai più curiosi anche “Zonkey” (2016;Voto:7) degli Umphrey’s McGee.

Un album di cover, tanto per capirci subito. Al contempo, però, l’album di cover più intelligente e divertente che abbia mai ascoltato. Non aggiungo altro perché penso basti per incuriosire, ma… pur trattandosi di un lavoro fatto esclusivamente da canzoni scritte da altri, se amate un certo sperimentalismo su idee altrui e mash-up lambiti da un qualcosa di molto prossimo alla genialità, beh… ascoltatelo perché merita!


Per concludere questa trentacinquesima puntata di Ascolti Perduti cosa può esserci di meglio che un album di sano… ecco, di cosa è fatto “Sometimes” (2015;Voto:6) di Goldmund? Ambient? Musica classica? Colonna sonora per qualcosa di non ancora ben definito?

Difficile definire propriamente questo disco, frutto di incisioni estemporanee di un musicista tutto sommato piuttosto apprezzato come Keith Kenniff. L’unica caratteristica penso indiscutibile di “Sometimes” è che regala, nel bene e nel male, uno stato di rilassatezza piuttosto penetrante. Che, poi, volendo tradurre questa definizione in modo un po’ meno politicamente corretto, si potrebbe dire che l’album in questione è poco meno che soporifero. In ogni caso non spiacevole, in ogni caso un lavoro condito da momenti di assoluta bellezza estetica (“A Word I Give”), un piccolo angolo sonoro in cui allentare le spinte centrifughe che la vita impone.

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