Patty Griffin – (2015)
Quando si va a cercare qualche informazione su Patty Griffin è facile cadere nel tranello di aspettarsi una folk singer tutta stivali con il tacco, cappello da cowboy e chitarra a tracolla. Che poi è l’iconografia country, ma fa niente.
Sì, Patty Griffin è anche questo. Però è soprattutto un cantautorato nobile, legato tanto alla tradizione statunitense quanto a certo jazz (la title track) e alle esperienze un po’ mistiche e un po’ crude di un’altra, più famosa Patti. Così come, nelle musiche della cantautrice originaria del Maine, si possono sentire i toni e percepire le ombre di molta tradizione blues, country, folk e soul, il tutto a formare uno stile che magari non è dei più immediati ma che cela nella sua profondità un’eleganza di base piuttosto rara.
Per capire cosa intendo si prendano un po’ di brani a caso di questo nono lavoro sulla lunga distanza firmato Patty Griffin. Non so, ad esempio la sofferta cantilena di “Hurt a Little While”, con l’organo in sottofondo che appena si percepisce ma risulta alla fin fine un perfetto sostegno per le cadenzate e brucianti note di chitarra e per il cantato prettamente blues.
Oppure “Gunpowder” e i suoi ammiccamenti un po’ paraculi ma decisamente efficaci e la tromba a fungere da elemento spurio e proprio per questo vero protagonista del brano. O ancora “250000 Miles” e le sue venature tristi e melanconiche, fatte di sofferenza vera e speranza solo accennata.Non è un album semplice “Servant of Love”, questo penso sia intuibile sin dai suoi primi, raffinati passi; diventa però sempre più evidente man mano che la track list procede nel suo percorso, mostrando lati di umanità non sempre evidenti e portando alla luce scorci di verità che sappiamo esistere ma quasi sempre facciamo finta di non vedere. Ma forse quello che più colpisce di un album come “Servant of Love” è la passione con cui Patty Griffin cura le sue composizioni, la nobiltà dei suoni scelti per incorniciare le liriche (“Everything’s Changed”), la delicatezza delle scelte tematiche, il gusto per un suono che non sia mai eccessivo rispetto alle storie, vere protagoniste del full length, ma neanche un puro e semplice sfondo messo lì tanto per evitare il silenzio.
Può non entusiasmare il tono sempre un po’ dimesso e dolente della cantautrice americana ma “Servant of Love” è un viaggio fatto da chi sa viaggiare, un percorso affrontato da una persona capace di cogliere la vita nei suoi aspetti più emotivi e intensamente umani.
Questo è anche il motivo per cui tante piccole smanie negli accompagnamenti finiscono rapidamente in secondo piano, mancando quell’azione di disturbo che in altri contesti sarebbe stata decisamente più fastidiosa. Ed è anche il motivo per cui le tredici tracce di questo album si ascoltano una volta e poi un’altra e poi un’altra ancora e ad ogni ascolto l’esperienza cambia, trovando sempre maggior profondità, sempre più gusto, come un’insalata che più la mescoli e più acquista sapore.Certo, “Servant of Love” è un disco che chiede all’ascoltatore un certo impegno o, se non altro, la voglia di scoprire il mondo per come lo vede la sua autrice. D’altra parte, quello che si può avere da musiche di questo spessore supera di gran lunga quello che bisogna spendere in attenzione e apertura emotiva, per quanto in qualche caso il rischio di rimanere feriti non sia poi così remoto. Che poi è quello che succede quando si è servi dell’amore. Né più, né meno.
Voto:7
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