Iosonouncane – (2015)
Jacopo Incani è sardo. Ci tiene a farlo sapere sin da subito, con un canto a tenore che opprime i sensi e velatamente si spoglia della sua provincialità per diventare sintetico e visionario.
“Tanca” apre così le porte di “Die”, stampando un gran punto di domanda in fronte all’ascoltatore e mettendo carichi abnormi di tensione in una musicalità dall’impatto grave e ricco di suspance.
Poi entrano in gioco le liriche brucianti e in qualche modo battistiane ma il risultato non cambia: l’ambiente rimane angusto e claustrofobico, il livello di ansia si assesta su standard abbastanza alti da rischiare l’insopportabile e quel senso di inquietudine, che forse sa più di esigenza di capirci qualcosa piuttosto che di curiosità di approfondire, sono caratteristiche che attanagliano l’emotività e non la mollano per tutti gli 8 minuti della track d’apertura. Non conta il fatto che verso la fine la cibernetica diventi molto più luminosa e in qualche modo ariosa: il lento e martellante basso che guida l’incedere del brano non lascia alcuna possibilità di movimento e porta ai coretti di “Stormi” in modo diretto, quasi con violenza.
Non fosse che l’album richiama costantemente a sé l’attenzione, promettendo ulteriori momenti al limite dello scioccante, dopo il brano di apertura servirebbe una pausa per riprendere ossigeno, per risistemare un attimo le idee prima di ripartire. In realtà non ce n’è bisogno: l’intelligenza del cantautore sardo ex Adharma basta e avanza per recuperare fiato visto che “Stormi”, con le sue dinamiche più pop, fatte di vento e tepore da spiaggia primaverile, con i fiati pronti ad ammansire la tensione e i cantati circolari, riesce in qualche modo a ritrovare una relativa serenità e, soprattutto, a far ricredere la sensibilità sull’eventualità di non riuscire a gestire tutto il full length in un’unica soluzione.E poi appare un gioiello assoluto, uno dei momenti musicali più intriganti che questa annata abbia saputo proporre: “Buio”.
L’introduzione in terzine, l’ipnosi indotta data dai tappeti sintetici, la forza delle dissonanze, gli intrecci armonici: tutto nel “Buio” sembra incredibilmente affascinante ed etereo, quasi visionario, ad un passo da un’avanguardia pop capace di cambiare le regole del gioco. Anche l’unica componente che aveva lasciato qualche perplessità finora, ossia i testi, qua diventa parte integrante di una visione che potrebbe sembrare unta di misticismo ma che in realtà è null’altro che affascinante guardarsi attorno e scoprire che c’è molto di più di quello che pensiamo di cogliere normalmente.
Poi, pian pianino il disco scema verso standard più “normali” con sequenze limitrofe al rock progressivo più nobile (“Carne”), brevi inquadrature minimali pronte a sfogarsi in istantanee jazzofile (“Paesaggio”) e un tentativo non proprio riuscito di chiudere il disco recuperando la tensione iniziale (“Mandria”). Poi “Die” finisce e i pensieri iniziano a fare a botte tra loro...Da una parte la netta sensazione di aver assistito ad un qualcosa di unico, irripetibile; dall’altra quella di non avere in alcun modo penetrato l’arte di Jacopo Incani ma di averla solo scalfita leggermente. Perchè il secondo lavoro sulla lunga distanza del cantautore sardo ad un secondo ascolto non sconvolge più come successo al primo impatto. Ma neanche lontanamente. E questo è decisamente curioso. Anzi, a dirla tutta, la ripetizione dell’esperienza porta quasi ad un senso di frustrazione dovuta al fatto di non riuscire più a recuperare le sensazioni prepotenti ed originali scatenate dalla prima esperienza con l’album.
Tutto questo fa molto pensare. E crea parecchie difficoltà nel dover valutare un lavoro difficile, complesso, ma anche godurioso e intellettualmente stimolante.
Facciamo così: per ora lasciamo spazio all’istinto, alle emozioni immediate che “Die” regala. Poi, magari, tra qualche tempo provo a riascoltarlo e vedere se cambia qualcosa. E allora forse riprenderemo il discorso e per ragionarci un po’ su.
Voto:7
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