2025-04-15

Peace and Noise

 


Patti Smith – (1997)


Anche se la tempesta di difficoltà della vita non ha del tutto cessato di assuefare l’arte di Patti Smith, con “Peace and Noise” si inizia a rivedere un briciolo di speranza.

Questa avrebbe dovuto essere la chiusura del post. Ho deciso però di ribaltare i paradigmi di quanto scritto perché ancora una volta, pur essendo in tutto e per tutto null’altro che sé stessa, Patti Smith ha saputo stupirmi. Ragion per cui penso che la cosa migliore sia ripartire da quanto scritto parecchio tempo fa e rifare mia l’esperienza del settimo album di inediti della cantautrice chicaghense.

“Peace and Noise” dunque. Titolo decisamente adatto a giudicare dalla track d’apertura e da quella miscela di rumore chitarroso e quiete da pianoforte che emana sin dai suoi primi passi tematici. Certo, è piuttosto singolare trovare delle progressioni pinkfloydiane in un brano di Patti Smith ma forse anche queste sono suggestioni di un cammino che inizia a mostrare qualche stanchezza compositiva ma non accenna a mollare il colpo sulla qualità artistica.

Lo dimostrano senza timore di smentite il salto negli anni ‘80 di “Whirl Away” e le propulsioni rock di “1959”, brani dotati di una lirica potente e incisiva come nella miglior tradizione legata alla cantante statunitense.

Non basta: lungo la track list è possibile trovare memorie declamate in diretta comunione d’intenti con il full length precedente (“Spell”) quasi a creare un ponte transitorio tra quello che che era e quello che è, o che è rimasto per lo meno.

Non basta: la botta oscura che va sotto il titolo di “Dead City”, la tranquillità un po’ triste e un po’ dimessa di “Blue Poles” e “Last Call”, le digressioni doorsiane di “Memento Mori”- presagio di quello che sarà “Gung Ho”- sono tutti episodi di un percorso fatto di riflessione, spirito di osservazione e analisi sia interiore che esteriore, tutti momenti in cui l’arte e la poesia si toccano, si piacciono e trovano con naturalezza la copula perfetta.

I pochi momenti di appannamento presenti lungo la track list- “Don’t Say Nothing”: una canzone quasi normale in un campionario eccezionale- valgono da campanello d’allarme ma per ora nulla di cui serva preoccuparsi.

Un primo, relativo, passo falso sarà invece “Gung Ho” (2000;Voto:6,5), pubblicato 3 anni dopo “Peace and Noise”. Non un album brutto, ca va sans dire, quanto piuttosto un disco in cui sembra un po’ esaurirsi la vena poetica di Patti Smith e prendere il sopravvento il contributo dei collaboratori chiamati a darle sostegno artistico. Detto un po’ brutalmente, “Gung Ho” è la versione al ribasso del suo predecessore. Non fosse per la lunga digressione finale nonché title track, praticamente una versione millenaristica di “The End” dei Doors, il disco non avrebbe altre ambizioni se non quella di essere un succedaneo della Patti Smith già goduta in passato.

Ecco allora che arriva il momento per un riepilogo, operazione non esattamente elegante dal mio punto di vista, ma utile a far scorgere anche a chi non abbia ancora vissuto l’arte della cantautrice americana il potenziale del suo lavoro. Tra le raccolte, quella meglio riuscita a me sembra “Land (1975-2002)”, pubblicata nel 2002. Un riassunto più o meno coerente del cammino di Patti Smith in oltre un quarto di secolo.

Voto:7,5

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