2025-04-30

Trampin

 


Patti Smith – (2004)


La buona, vecchia- sempre più vecchia, sia in positivo che in negativo- Patti Smith svolta il confine immaginario del nuovo millennio con un campionario che grosso modo ricalca alcuni dei passaggi fondamentali della sua carriera e osa proporre con qualche timidezza piccole novità al suo sound classico.

La prima di queste è senza dubbio legata alla qualità del suono, decisamente moderna, quasi atipica per un modello che forse mai come in questa circostanza ha saputo adattarsi al nuovo ed accettare un restyling vero e proprio. Merito soprattutto di Pat McCarthy, già in cabina di regia con band come U2, Counting Crows e R.E.M. e piuttosto facile da inquadrare in episodi come “My Blakean Years”. E’ questo tocco inaspettatamente fresco a fare di ballate tutto sommato standard per un talento come quello di Patti Smith come “Mother Rose” e la più oscura “Cartwheels” dei brani tutto sommato gradevoli e in qualche modo ricchi.

I punti di forza di “Trampin” sono però altri. L’iniziale “Jubilee” ad esempio, con quel suo recupero dell’aggressività rock della Patti Smith matura ma non ancora consumata dalla vita. Oppure “Gandhi”, anche se in questo caso la componente politically correct stride un po’ con il personaggio che ne interpreta gli intendimenti. O ancora “Radio Baghdad”, evidente secondo atto di “Radio Ethiopia” e sua degna erede.

Il resto del campionario proposto dalla cantautrice statunitense in questo nono lavoro sulla lunga distanza poco si discosta da quanto già sentito nelle pubblicazioni degli anni ‘90, mostrando solo in parte la senescenza di una scrittura ancora appassionata e la stanchezza di un talento musicale recalcitrante alla resa.

Forse, però, tra tutte le caratteristiche che si possono scorgere in “Trampin”, è la melanconia a farla da padrona. Lampante in momenti relativamente intimi come “Trespasses”, “Cash” e “Peaceable Kingdom”, oltre che nella title track, posta a fine track list e profumata di commiato tanto quanto può essere il disco nella sua interezza, quasi l’epitaffio per una carriera incredibile e fondamentale.

Non sarà così. Con cadenza quinquennale, Patti Smith continuerà a sfornare gran bella musica, magari non rivoluzionaria come nei primi anni di carriera ma dall’inconfondibile fascino poetico. Mi riferisco ad esempio a “Twelve” (2007; Voto:7), una raccolta di interpretazioni nobili, raffinate e coinvolgenti di alcuni classici del rock e dintorni come “Are You Experieced?”, “Gimme Shelter” oppure “White Rabbit” dei Jefferson Airplane. La cosa curiosa è che le versioni della cantautrice statunitense sono così veraci e violente che sembra impossibile non siano canzoni scritte da lei. Insomma, un gran bel album di cover, se non si fosse capito.

L’ultima prova in studio firmata Patti Smith di cui ci sia traccia è invece targata 2012 e porta il titolo di “Banga” (Voto:6,5). Si tratta di un album che torna alle oscure intimità del periodo di ”Gone Again”, magari non con la stessa malinconia tetra ma neanche poi troppo distante da quei paradigmi. Con un’unica variante piuttosto importante: la quantità incredibile di riferimenti sociali, culturali ed artistici contenuta nei brani, quasi un’enciclopedia messa in musica.

Detto altrimenti, l’impressione è che Patti Smith sia consapevole che la storia l’ha già scritta e non può farlo una seconda volta e allora abbia deciso semplicemente di promulgarla per renderla più duratura possibile. Chapeau!

Voto:6,5

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