Doe – (2016)
Quando si trattano album di debutto è sempre piuttosto difficile collocare stilisticamente il loro essere. Un po’ perché si tratta di novità e, a meno di non essere al cospetto di una copia dell’ennesima copia di qualcosa di moda, è tendenzialmente complesso racchiudere l’ignoto in un recinto ben definito.
Nel caso degli inglesi Doe a maggior ragione, vista la tendenza psicotica e altalenante delle loro creazioni musicali. Che sì, per lo più si rifanno a certo indie rock e soprattutto al punk britannico ed alla sua succedente propagazione post ma, al contempo, ha una sua dimensione peculiare, fresca come può essere l’idea di un manipolo di sbarbatelli alle prime armi ma anche incisiva come impone la categoria- o le categorie, se preferite- di riferimento.
Fino a qua avrete capito poco o niente, immagino. Allora andiamo con qualche esempio. L’opener: si intitola “No.1”. Che di base verrebbe da leggere “number 1”, perché c’è quel puntino, perché è il primo brano del primo album di inediti, perché… boh, perché sì. E invece il trio londinese ti spara in faccia la frasetta “no one” per una miriade di volte, fino a farti entrare in testa che il titolo è quello e che i Doe si chiamano così perché è il nome più anonimo che esista, quello con cui si definiscono i “no one”, i nessuno. Magari questa ultima parte me la sono inventata io, però come narrazione ci sta... o almeno penso.
Comunque, tornando al sodo, alla traccia d’apertura segue “Monopoly” e già si fanno sentire in tutta la loro forza propulsiva molti dei cliché che hanno accompagnato il rock tra gli anni ‘80 ed il decennio successivo, con un’alternanza continentale piuttosto potente nonostante- non so perché- la memoria mi tradisca richiamando profumi di Echosmith. Boh, sarà l’accento.In realtà anche in “Corin” sento fragranze altrui, direi police-iesche in questo caso. Ma forse anche questo è un bug della mia sensibilità.
Poi, in ordine sparso troviamo pezzi più “classici” come “Sincere” o “Anywhere”, oppure elaborazioni più intellettuali come “Turn Around” o ancora momenti più facilmente collocabili in territori post-punk come “Respite”, ma di fondo la sensazione di base non cambia più tanto: questi tre ragazzini ci sanno fare. Più con la freschezza di una proposta ingenua e violenta che con del vero e proprio mestiere, ma penso sia un po’ nell’ordine delle cose per un gruppo dall’età media poco più che puberale.
Un attimo, detta così potrebbe sembrare una svalutazione nei confronti di Nicola Leel e compagni.
Proviamo a ribaltare il concetto: un disco può essere pensato, ragionato, ponderato e questo ne rappresenta il fascino principale. Oppure può essere schietto, spontaneo, brutale nel suo voler buttare in musica la parte più istintiva del proprio carattere. E anche questo ha il suo fascino. Ecco, i Doe si rifanno a questa seconda condizione. E la mettono in pratica senza porsi alcun dubbio sulla validità del prodotto, sull’efficacia delle musiche, sulla violenza scatenata dai cantati.Fanno bene! Perchè se da una parte è evidente che molto del carattere del gruppo derivi dalla propulsione vocale di Nicole Leel e che, dalla scrittura alle esecuzioni ci sia molto da limare sotto il profilo tecnico, dall’altra un album così irresponsabilmente verace serviva proprio in un momento storico in cui tutti sembrano essere un po’ troppo convinti di meritare un posto nella storia.
Ecco, tutti sembrano convinti, i Doe lo sono. E la differenza di sente!
Voto:7
Nessun commento:
Posta un commento