Anna Elizabeth Laube – (2015); (2016)
Non appena parte “Already There”, opener del terzo album di inediti di Anna Elizabeth Laube, le immagini che attraversano la mente sono piuttosto chiare e penetrano genuinamente la fantasia: camicie a quadrotti, cappello di paglia e una spiga a fendere l’aria partendo tra le labbra e puntando a distese enormi di coltivazioni o pascoli.
Detto altrimenti: country.
O forse folk? O forse country-folk? Lascio ai puristi la risoluzione del dilemma. Fatto sta che le prime tracce di “Anna Laube” ci mettono un nonnulla a travolgere i sensi con le delicatezze eleganti di un sound leggero e disimpegnato, a tratti giocherellone (“Chocolate Chip Banana Cupcakes”), in alcuni momenti vanamente coraggioso (“The Bike Song”), per lo più semplicemente aggrappato mani e piedi alla tradizione a stelle e strisce.
Che le atmosfere siano più intime e brumose come in “This Ones For You” piuttosto che spensierate e domenicali come in “Sugarcane”, l’unica cosa che davvero è difficile evitare ascoltando il campionario offerto dalla cantautrice statunitense è un forte senso di già sentito. Fino ad arrivare al dubbio- legittimo, secondo me- che non tutti i brani siano autografi.
Questo non significa che il disco non sia piacevole. Anzi, con il suo fare sbarazzino, forse anche un po’ ingenuo, Anna Elizabeth Laube riesce a trasporre in musica sapori e odori della sua terra e della sua cultura. Che non è poco, mi si permetterà. Certo, che di tutta la track list la sola “You Ain’t Worth My Time Anymore” colpisca per un qualche accenno non dico sperimentale ma per lo meno un minimo discostato dalla pura e semplice riproposizione di paradigmi tradizionali, fa velocemente sprofondare il disco in una specie di purgatorio della prevedibilità, a lungo andare relativamente pesante nell’economia del disco.Volendo metterla ai voti, diciamo che siamo nei dintorni di una sufficienza poco entusiasta.
E non lontano si posiziona anche il successivo lavoro sulla lunga distanza della cantautrice americana, “Tree”, pubblicato l’anno dopo rispetto al self-titled album di cui sopra. Qua le cover ci sono davvero e sono facilmente riconoscibili, a partire dalla traccia d’apertura, quella “Wallflower” scoperta dai discografici- e quindi dal pubblico- di Bob Dylan nei Bootleg Series, con un buon ventennio di ritardo sulla loro effettiva venuta alla luce. L’altro “scippo” è “XO”, brano decisamente migliorato rispetto all’originale- non che ci volesse molto!- e impreziosito da un utilizzo intelligente e raffinato dei fiati.Il campionario autografo non si discosta più di tanto da quanto già sentito nel disco precedente se non per un più acceso senso di solitudine e per l’utilizzo prevalente del pianoforte al posto della chitarra in alcuni brani. Quello che di certo non va a morire è la sensazione di deja-vu che scorre limpida e molesta lungo ogni singola creatura sonora senza mai mollare la presa.Detto altrimenti, per quanto entrambi i full length siano gradevoli, contraddistinti da punte di finissima classe country-folk, il repertorio fino a qua esibito da Anna Elizabeth Laube sembra mancare ancora di una personalità decisa, di quel mordente capace di rendere un modello riconoscibile.
Forse anche questa componente arriverà con il tempo. O forse no. Per intanto Anna Elizabeth Laube può ritenersi soddisfatta di promulgare nel tempo e nello spazio un sound carino e amabile, fortemente intriso di quegli umori che solo nelle ampie distese coltivate a pascolo degli States più agricoli sa trovare i suoi più profondi riferimenti.
Voto:6 e 6,5
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