2025-06-02

Cleopatra

 


The Lumineers – (2016)


Sono in tre i “luminari”: Wesley Schultz, Jeremiah Fraites e Neyla Pekarek. E sembrano fortemente attratti da un’unica, solida, costante struttura: un tamburo, un battimani, accordi immediati di chitarra o pianoforte e cantati tradizionali.

Fine dell’analisi. Grazie e arrivederci.

Ok, ok, ho banalizzato brutalmente un concetto sonoro che qualche anno fa andava tremendamente di moda. Del resto cos’è la moda se non banalizzare il gusto personale? Sì, va bene, niente filosofia spicciola, stiamo aderenti a “Cleopatra” e al modello musicale dei The Lumineers. Che comunque è piuttosto banale, si converrà spero. Tanto che sia l’opener “Sleep on the Floor” che la seguente “Ophelia” danno l’immediata sensazione di averle già sentite da qualche parte.

Certo, poi nella title track spariscono i battimani ma l’impressione di familiarità molesta no, quella permane. E resterà una costante lungo tutta la track list proposta dal trio newyorkese nel secondo lavoro sulla lunga distanza firmato The Lumineers.

Possiamo dire che si tratti di una sensazione spiacevole? Magari sì, in qualche modo. O forse no… boh, dipende dai riferimenti a cui ogni singolo ascoltatore fa riferimento. Però il punto non è questo. In fondo le varie “Gun Song”, “Angela”, “In the Light” e via discorrendo fino al conclusivo sgocciolamento di pianoforte di “Patience”, sono canzoni gradevoli, aggrappate mani e piedi alla tradizione cantautorale, prive di ambizioni, scevre da velleità sperimentali, perfette per creare un ambiente accogliente e rassicurante, fatto di quel calore folk che si può ben apprezzare stando al calduccio, fermi immobili mentre fuori dalla finestra il mondo si muove frenetico.

Ecco, se è questo quello che cercate in un disco, “Cleopatra” saprà soddisfare i vostri gusti. Soprattutto se l’attenzione per la musica è solo un parziale distacco dalla realtà immediata, confusa tra altre sollecitazioni più o meno urgenti. Se invece il desiderio è quello di scoprire densità sonore diverse da quelle comuni, esplorare paesaggi inconsueti oppure cercare nella musica quegli stimoli che in altri contesti sono quanto meno improbabili, allora no, “Cleopatra” non saprà dare seguito a queste esigenze.

L’universo dei The Lumineers è fatto di un standard piuttosto ingessati, incastrati nella storia un po’ come la protagonista che presta il suo nome- e una sua possibile effige- al disco. Vogliamo essere più terra terra e didascalici? Allora “Cleopatra” è il classico piatto che sfama ma non nutre, una libagione che ha sostanza ma manca di gusto, dove gli ingredienti trovano facili equilibri ma poi, a ben vedere, è facile scoprire che manca la ciccia.

Poi, uno va a vedere quante volte alcuni brani di questo full length siano stati riprodotti e scopre che si tratta di numeri lusinghieri. E allora viene spontaneo chiedersi se il pubblico generalista non sia un po’ troppo abituato a mangiare senza gustare, a inghiottire senza masticare. Ecco, il merito più grande di album come “Cleopatra” è mettere a nudo questa realtà piatta e, mi si permetterà, un po’ triste. Altro di interessante, in quanto proposto dai The Lumineers in questa seconda fatica discografica io non ho trovato.

Voto:5,5

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