Paul Simon – (1983)
Eravamo rimasti a “Still Crazy After All These Years”. Era il 1975. Non un album eccellente, non un album pessimo.
A dirla tutta, il pensiero dominante, ascoltando il terzo lavoro sulla lunga distanza del cantautore statunitense, era che l’album in sé avesse tutte le qualità per essere ambizioso e tutto sommato bello. E’ chi lo esegue e lo interpreta a mancare in qualche modo il colpo. No, non perché i brani non siano comunicativi o privi delle qualità che la loro esegesi necessita, quanto per il fatto che da uno che si chiama Paul Simon ci si aspetta sempre il massimo. Non qualcosa in più degli altri, proprio il massimo!
Allora l’artista chiude le porte al pubblico, si rintana nella sua creatività, medita e studia e scopre. E quando ha tutto per ricomparire (quasi) al massimo della sua espressività ecco che fa capolino “Hearts and Bones”, un disco stupendo e forse sottovalutato solo perché seguito da uno dei grandi capolavori della musica leggera, “Graceland”. Ci arriveremo…
Intanto quello che ritroviamo ad anni ‘80 già inoltrati è un Paul Simon che ha un sacco di voglia di raccontare storie. La title track, posta ad apertura del disco, con quel suo tocco delicatamente esotico e profondamente intimo, le tendenze funk-pop di “When Numbers Get Serious”, i cori setosi, vagamente who-iani di “Train in the Distance”, la prepotenza espressiva della ballata classica condita da cori strepitosi di “Rene and Georgette Magritte With Their Dog After the Dog” sono tutti esempi di un livello di scrittura che non lascia adito a dubbi sia sulla qualità e sulla ricerca musicale che su una ritrovata vena poetica per quanto concerne i testi.I punti forti del disco però sono altri: le due parti di “Think Too Much”, con quel velo di autoironia e brio creativo a rendere più vaporoso e allegro un contesto altrimenti a forte rischio di eccessiva pesantezza e la conclusiva “The Late Great Johnny Ace”, dedica sentita e vibrante a John Lennon impreziosita da una chiusura d’archi e legni da pelle d’oca.
Bisogna dire una cosa che sembrerà banale ma secondo me è importante: per apprezzare “Hearts and Bones”- e farsi andare bene una copertina… vabbè, penso siate d’accordo che si poteva decisamente fare meglio!- bisogna un po’ calarsi nell’epoca in cui l’album è stato creato e messo in opera. Senza questo riferimento spazio-temporale è difficile capire quanto siano importanti le sfumature, i dettagli, le minuzie che caratterizzano sia il songwriting che la resa strumentale e che a tutti gli effetti sono i cardini che sostengono la caratura emotiva dei brani. Da questo punto di vista impossibile non accennare all’ottimo lavoro di tutti i collaboratori chiamati a dare il loro contributo alla riuscita del disco, non ultimo Steve Gadd, uno dei tanti batteristi dei quali la posterità si ricorda un po’ troppo raramente.Qualche anno dopo arriverà la Storia, con la esse maiuscola, a mettere un po’ in disparte “Hearts and Bones” per fare spazio al capolavoro di una vita. Però, caspita, che gran bel disco!
Voto:8,5
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