Paul Simon – (1986)
Molte- dai diciamolo: troppe!- volte sono stato criticato per i voti che pongo in calce ai miei scritti. Vengo tacciato di essere eccessivamente critico, quasi cattivo al momento di condensare in un numero quello che penso di un disco.
Ora, al netto del fatto che si tratta solo di un’opinione, di un riassunto brutale di quanto scritto, utile solo a mettere il disco in questione in un’ipotetica classifica globale di ascolti, ossia più o meno un divertissment estemporaneo mica un giudizio cattedratico… comunque, al netto di questo, leggete quanto sto per scrivere e capirete- o almeno me lo auguro- perché al disco tal o tal altro non riesco che ad affibbiare voti sufficienti quando non mediocri.
Dunque “Graceland”. Partiamo con “The Boy in the Bubble” e con quel trombone che pensa di essere un basso. O con il basso che che non ha capito di non essere un trombone. Passiamo allora alla title track, pellegrinaggio divertente e divertito nelle terre di Elvis Presley raccontato con il piglio del cantautore che sa cosa sta facendo e ci gode un sacco. Anche perché tra cori e accompagnamenti, il senso estetico non può che andare in visibilio.
Non basta? Allora ecco altre canzoni che vanno dallo stupendo al meraviglioso: “I Know What I Know”, il folk con il pepe al culo di “Gumboots”, la stupefacente commistione di realtà e modi contenuta in “Diamonds on the Soles of Her Shoes”, le tendenze più pop di “You Can Call Me Al” e quelle quasi reaggeggianti di “Under African Skies”… tagliamo corto: ditemi un unico episodio di “Graceland” che non abbia le potenzialità per essere traino e punto di forza di un qualsiasi album di un autore che non sia Paul Simon!Cominciamo un po’ a capirci sulla questione dei voti?
Magari no, allora aumentiamo la dose. Il sesto album di inediti del cantautore statunitense è fatto da canzoni bellissime, sia sotto il profilo della creatività che da quello della resa estetica e del messaggio. Ma quello che fa di “Graceland” uno dei dischi più belli e importanti della storia della musica moderna è il percorso che rappresenta, quel mettere insieme elementi culturali e storie personali teoricamente pensate in linguaggi diversi e farle comunicare tra loro fino ad arrivare al punto di far sembrare tutto un unico monolite artistico multisfaccettato e ricco di colori piuttosto che una serie di icone, magari belle, magari affascinanti ma a sé stanti l’una rispetto all’altra.
Provo a spiegarmi meglio: “Graceland” non è tecnicamente un concept album ma è come se lo fosse. Invita l’ascoltatore lungo un percorso ricco di elementi naturali e risorse elementari, facendole coniugare tra loro con una naturalezza quasi commovente, proponendo profumi e gusti ai quali non siamo abituati come se fosse un’esperienza ovvia, un salto in una tradizione che non ci appartiene ma che in realtà sentiamo nostra.Questo è il motivo per cui “Graceland” è un album leggendario, costretto a ridefinire la storia della musica dalla incredibile quantità di elementi artistici e culturali che porta in dote. E questo è il motivo per cui Paul Simon è uno dei pochi cantautori di cui si può dire che nella storia ce n’è uno; è impossibile ne capiti un altro. Per lo meno nel breve tempo di una vita.
Arriviamo allora al punto. E anticipo già alcune obiezioni: lasciate perdere le storie tipo erano altri tempi, cambia il contesto e balle varie. L’arte non ha tempo ed è l’unico contesto che conta. Paul Simon con “Graceland” ha trovato la chiave per ridefinirla.
Ora: se “Graceland” è un 10, un album a caso tra quelli che potete trovare in una classifica di vendite a cosa può ambire? Provate a mettervi nei miei panni: non sono io che sono cattivo, è la musica che esprime i suoi valori. Io mi limito a prenderne atto.
Voto:10 e Lode
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