2025-06-17

Reflections

 


Paul Van Dyk – (2003)


Giano Bifronte. Una faccia guarda il passato, l’altra scorge il futuro.

Paul Van Dyk. Non dico l’Olimpo dalla musica trance ma quasi. Da sempre rispettoso della tradizione in ambito club music- tradizione che, peraltro, lui stesso ha contribuito a creare, almeno in Germania- ma anche coraggioso innovatore, produttore capace di partire dal suono caro a Detroit per farlo diventare prima mitteleuropeo e poi un vero e proprio marchio di fabbrica in tutto il vecchio continente.

“Reflections”, da questo punto di vista forse non è il disco più rappresentativo del dj berlinese: si tratta di un lavoro che appartiene alla fase matura della sua creazione artistica, una spanna avanti sulla linea temporale rispetto agli episodi giovanili come “45 RPM”, in cui era evidente lo sguardo rivolto alla sperimentazione in ambito techno e trance, oltre alla definizione stessa della crasi dei due concetti.

Il quarto album di inediti a firma Paul Van Dyk mostra tutto il rispetto necessario per le linee guida della musica elettronica da club: lo dimostrano l’iniziale “Crush”, evidente mossa tattica per non tradire le aspettative del suo pubblico. D’altra parte, “Reflections” mostra anche una certa volontà di superare quei paradigmi per portarsi su un nuovo piano espressivo, qualcuno potrebbe dire più lungimirante, altri spericolato, ma in ogni caso alternativo alla classica postura danzereccia.

Da questa esigenza nascono brani più vicini alle pop songs di inizio millennio come “Time of Our Lives”, scritta a 6 mani con John McDaid e Simon Walker dei Vega4, oppure il brano più coerente con il titolo del full length, quella “Like a Friend” che a tutti gli effetti è il punto di non ritorno non solo del disco ma anche dell’intera produzione dykiana.

Poi l’attenzione torna ad appoggiarsi al recente passato, alla fine degli anni ‘90 con una specie di pretestuoso richiamo alla Madonna più discotecara (la title track), una manciata di canzoni legate mani e piedi al Van Dyk che fu (“Nothing But You”, “That’s Life”, “Connected”), qualche momento più arioso e in qualche modo spinto in direzione di una maggior rilassatezza (“Buenaventura”) e piccoli scippi ai danni di protagonisti più o meno famosi del periodo (l’ombra di Sophie Ellis-Bextor aleggia piuttosto ingombrante su “Homage”, profumi di Brooklyn Bounce pervadono la pur intrigante “Knowledge”), per un risultato finale che regala ad un primo ascolto la netta sensazione che Paul Van Dyk abbia voluto stare con un piede in due scarpe.

La scelta di costruire un percorso che un po’ titilla il gusto degli aficionados storici e un po’ cerca di portarsi avanti, in vantaggio rispetto al qui e ora, costringe l’album ad un’altalena quasi parossistica, una comunicazione stilistica forzatamente ambivalente, a tratti al limite della schizofrenia.

E’ sempre stata un po’ la malattia dei dj che diventano produttori pensare ad un album partendo dalla canzone piuttosto che viceversa. In questo caso, però, l’impressione è che la canzone sia l’unico vero risultato possibile nella mente di Paul Van Dyk e l’album serva solo come contenitore, un po’ come le stupende vecchie valigette dei vinili di una volta.

Eccolo Giano Bifronte: una faccia rivolta al passato, l’altra propensa a sondare futuro. Il problema è che manca il presente!

Voto:5,5


P.S.: un cenno lo merita anche la trilogia “The Politics of Dancing”, pubblicata tra il 2001 e il 2015. I primi due volumi per l’ottima produzione e rivisitazione di brani foresti, il terzo- l’unico definibile come album- per l’ottima qualità delle idee melodiche stampate sui ritmi sempre quadrati e decisi del dj tedesco. Non un lavoro imprescindibile ma comunque un percorso con un qualche valore. E parecchia classe!

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