Emily Jane White – (2016)
Abbiamo da poco affrontato Marissa Nadler e il suo folk oscuro e romantico. Come tutti i simboli di una certa cultura, anche la cantautrice statunitense ha i suoi omologhi più o meno vicini così come le sue versioni alternative. Solo un’altra musicista, per quanto ne so, riesce ad essere tutte e due le cose assieme, cioè sia una specie di seguace che un alter ego più spinto ed eccessivo. Il suo nome è Emily Jane White.
Californiana di nascita ma cosmopolita d’indole, attiva da poco meno di una decade, la cantautrice nata a Oakland è effettivamente uno dei migliori prospetti in ambito dark folk. Decadente ma anche ferocemente romantica- nel senso alto del termine, se si capisce cosa intendo- Emily Jane White prende istantaneamente alla pancia, assopisce i sensi con la sua tendenza suadente nel raccontare storie che vanno dal torbido al sofferente preferendo spesso il pianoforte alla chitarra ma senza cambiare che di dettagli l’impostazione tenebrosa cara a Marissa Nadler.
Nelle fusioni tra generi, mescolare folk e toni gotici non è che sia una novità: suonare al citofono Cohen per ulteriori precisazioni. Però il modo in cui questo miscuglio viene messo in pratica da Emily Jane White e dalla Nadler ha qualcosa in più. Sarà la spinta tetra di musiche che prediligono i toni minori, le interpretazioni sempre al limite tra il vedo e non vedo, offuscate da un senso di annebbiamento tremendamente affascinante, oppure quello strascico di mistero che sgorga da brani come “Nightmares on Repeat” o più probabilmente tutte queste cose assieme… fatto sta che “They Moved in Shadow All Together”- titolo “rubato” a Cormac McCarthy- ha la stessa spirale intensità emotiva degli ultimi album di Marissa Nadler, lo stesso fascino perverso e triste, laconico quanto basta per sembrare decadente ma allo stesso tempo passionale nelle sue oscure trame strumentali, ideali intrecci per i cantati soffusi, in qualche modo discreti ma anche incredibilmente ficcanti della protagonista.Per fare tutto questo, Mary Jane White non tralascia alcun dettaglio: esplora gli strumenti a disposizione, ne modula toni e riverberi, sfrutta lo spazio in maniera intelligente aprendo e chiudendo la valvola dell’ossigeno in modo da correggere l’esperienza musicale inebriando i sensi- il pianoforte “spiritoso” di “Rupturing”, i cori ariosi di “Moulding”- e costringendo l’ascolto a seguire passo passo il sentimento dei cantati e degli accompagnamenti fino a provare del vero e proprio dolore fisico- le percussioni di “The Black Dove”- oppure esperire ampie distensioni cerebrali messe a galleggiare sull’ansia (“Antechamber”).
Di più: Mary Jane White modula i tempi cercando dilatazione e contrazione portando le dimensioni delle canzoni a diventare il giusto contenitore per le emozioni proposte.
Sì sono grosso modo le stesse cose scritte per “Strangers” solo qualche giorno fa. Però a tutti gli effetti, pur non avendo vere e proprie continuità nei modi o nelle costruzioni, Emily Jane White e Marissa Nadler sembrano mosse dalla stessa necessità, feroce e declinante, di mettere a nudo il lato oscuro della loro arte. Ed entrambe stanno in qualche modo cambiando il modo di intendere il folk, aumentandone la cifra emotiva e trascinando il concetto stesso di folk in una dimensione non dico inesplorata ma di certo ancora ricca di potenziale.
Ah, quasi dimenticavo: tutto questo facendo degli album letteralmente stupendi!
Voto:7,5
P.S. una piccola nota estetica: una cornice bianca alla figura immortalata- mai come in questo caso il termine sembra appropriato!- in copertina avrebbe reso l’artwork maestosamente inquietante tanto quanto il contenuto del disco. Solo un parere mio.
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