2025-06-12

Heimat

 


Heimat – (2016)


Al primo ascolto “Heimat” mi ha letteralmente frastornato!

L’aggressività delle textures, l’impatto marziale di molti brani, i vocals stralunati e feroci: tutto nelle dieci tracce che formano questo album di debutto riporta in un qualche modo alla sofferenza, ricevuta o inflitta, ad una realtà in cui il piacere non è minimamente contemplato. Mi riferisco esclusivamente all’impatto estetico, sui contenuti arriveremo dopo.

Sono partito troppo carico? Sì, ok ma questo è niente, perchè il problema è che al momento di cercare di scoprire qualcosa riguardo al progetto Heimat mi sono trovato di fronte ad un muro impenetrabile!

Niente testi innanzi tutto. Che per uno come il sottoscritto che il tedesco lo mastica a malapena è un gran bel problema. Va detto che ci sono anche un paio di brani in quello che potrebbe sembrare italiano, o comunque un dialetto italico, ma questo non è che migliori più di tanto le cose visto che, almeno per quanto mi riguarda, i significati testuali rimangono insondabili. I pochi dati disponibili ai quali ho avuto accesso sono i seguenti: i Heimat sono in due, Olivier Demeaux e Armelle Oberle, entrambi francesi, entrambi piuttosto macabri nel loro intendere la musica. Fine. Null’altro.

Quindi di questa prima release firmata Heimat cosa possiamo dire?

Tanto, in realtà! Perchè già l’opener “Wieder Ja!” stabilisce senza alcun dubbio i parametri delle creazioni sonore della coppia transalpina: fortissimo pathos, tensione sparata a mille e un senso di discomfort percepibile a pelle, senza neanche la necessità di arrivare al profondo della comprensione dei brani.

Le forti caricature post punk unite a singolari prestiti folk orientaleggianti, ritmiche bellicose e cantati pronti a rimettere in discussione regine della new wave più oscura come Siouxsie oppure Elizabeth Fraser, traducendole però in chiave più industriale e meccanicistica, abbandonando in qualche modo la formalità gotica tipica dell’universo darkwave, sono un costrutto che ci mette poco o niente ad attrarre l’attenzione, mettere moltissima pressione addosso all’ascolto e far proprio l’ambiente offuscando i sensi con un gusto per il macabro declinato in maniera deterministica e in qualche modo sadica.

Occhio però: mi riferisco ad un particolare modo di essere sadici, quello che, per capirci, sconvolge in “Salò” di Pasolini. Per provare ad intuire cosa intendo ascoltate “Tot Und Hoch” oppure “Trocadero”, o ancora la pesantissima “Pompei”, brano al quale è inutile resistere vista la sua peculiare capacità di spianare l’emotività e ridurre tutto in una specie di magma indefinito, in cui l’esperienza serve solo per tentare di sopravvivere, non certo per aumentare i gradi di vita della sensibilità.

I brani che però colpiscono di più alla pancia, provocando con non poca perversione, sono “Afrikistan” e “Dein Architekt”. La prima per la carica di ansia e nervosismo che rovescia addosso all’ascoltatore senza minimamente preoccuparsi delle conseguenze. La seconda per gli evidenti riferimenti ad Albert Speer- o almeno credo- che meriterebbero decisamente un approfondimento testuale.

Adesso penso sia un po’ più chiaro perché una volta terminata la track list non è poi così difficile ritrovarsi frastornati, quasi nella condizione di chiedersi: “cosa caspita è successo nell’ultima ora”? Che tra l’altro potrebbero essere due o un giorno intero, visto che l’esperienza di “Heimat” annulla i riferimenti temporali e stranisce completamente il concetto del trascorrere.

Mettiamola così: al netto della comprensione dei testi, per ora a me inaccessibile, “Heimat” è il classico album che muove una marea di emozioni, belle e brutte, che scava nei sensi e difficilmente lascia prigionieri. Detto altrimenti, il classico album che ascolterei e riascolterei fino all’assuefazione. Questi Heimat sono da tenere d’occhio!

Voto: 7 (con riserva)

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