Katy B – (2016)
La copertina di un disco è un po’ il suo biglietto da visita.
Non sempre; qualche volta la cover mette in testa a chi la guarda più dubbi che certezze. In altre occasioni, però, l’impatto visivo immediato svela in modo quasi subitaneo il contenuto dell’involucro del quale rappresenta la facciata più diretta e istantanea.
Prendiamo la copertina di “Honey”, terzo album di inediti di Katy B: sfondo nero, nome dell’artista tridimensionale con effetto neon annesso e titolo del disco scritto a perline. Potremmo tradurre questo primo impatto visivo con le seguenti aspettative: sonorità luminose, probabilmente di natura elettronica, parecchia ignoranza nei testi e una certa eleganza nei modi, non definibile al momento se più di facciata o effettivamente sentita. Andando poi alla prova sonora si scoprirà con una certa immediatezza che quanto previsto si avvera solo a metà.
L’elettronica c’è, questo è innegabile: almeno nei primi scampoli della track list un costrutto che sa far valere la sua presenza ma senza esagerare in peso specifico e anzi con una certa raffinatezza tematica, soprattutto per quel che riguarda le ritmiche. La sopra citata ignoranza testuale invece latita per la maggior parte della durata del full length, mandando a ramengo uno dei capisaldi delle aspettative. Non che le liriche abbiano un carattere particolarmente evoluto, però almeno non si scade nella volgarità, eccezion fatta forse per la sola “Heavy”.Quello che invece di certo non manca a Kathleen Anne Brien è l’eleganza nei modi, sia quando il riferimento di genere è un rhythm n’blues contemporaneo come nella title track che in ambiti più smaccatamente ruffiani come la danzereccia “I Wanna Be”. Ci sono poi delle collaborazioni, ingredienti immancabili in un lavoro che punti a scalare le classifiche, come “Who I Am”, pezzo un po’ sciapo ma facilmente riconoscibile nell’impronta di Major Lazer in regia e nella suadente- ma anche un po’ svogliata- voce di Craig David a fare da contraltare ai cantati della protagonista.
Però, un attimo: se si va a spulciare i credits in realtà non c’è un singolo brano scevro da qualche aiutino. Questo è relativamente strano: potrebbe tranquillamente portare a pensare che, al momento di entrare in studio, Katy B fosse piuttosto insicura del materiale a disposizione e che quindi abbia pensato di accogliere il maggior numero disponibile di idee altrui. Certo, sto speculando, però suvvia, non mi sembra un’ipotesi così balzana. Il punto però è che è un’ipotesi sbagliata.
Per quanto sia evidente l’apporto di alcuni ospiti, anche proprio nelle dinamiche e nell’estetica dei brani, la maggior parte dei feat riguarda personaggi non di primo piano in ambito electro e pop, artisti un po’ background con tanta voglia di mettersi in luce e creare cose interessanti. Non solo: è in realtà anche facilmente percepibile un filo conduttore lungo la track list. Quel filo conduttore si chiama Katy B. Che trova nelle basi meno banali- il drum’n’bass di “So far Away”, le saltellanti bolle ritmiche di “Clam Down”- il miglior substrato per far valere la sua sensualità vocale e un piglio che prende dal pop quanto basta per non indugiare eccessivamente in confronti pericolosi con la musica nera.Certo, l’ambito è quello leggero e disimpegnato della musica per le masse, fatta più per vendere che per convincere. Però in “Honey” Katy B sembra aver trovato la giusta misura tra un’espressione reale e viva della musica e un’evidente ricerca di consenso mediatico. Detto altrimenti, non un album eccezionale “Honey”; però tra gli album non eccezionali del periodo, uno dei migliori.
Voto:6,5
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